SU ‛N SOM
Su ‛n Som, di luglio, i pascoli erano corsi dal vento che piegava la dura erba grigia e sibilava tra i sassi radi. Sui dorsi spaziosi delle creste lo sguardo non incontrava ostacoli, libero ovunque si volgesse: a levante, dov'era la Valle, a mezzogiorno da cui salivano le foschie delle piane, a ponente, dolcemente digradevole in un mare d'abeti, a settentrione, dove s'ergeva, bianca di ghiacci e inaccessa, la Dimora degli Dei.
Su ‛n Som era deserto, né ombre d'alberi e fonti fresche allietavano i pastori che per la sete, avevano l'acqua del cielo e il piccolo lago della Moja, limpido come aria.
Su ‛n Som salivamo di giugno, appena l'ultima neve se ne andava, settanta capi ciascuno e le bisacce colme. Dalle Vare alte, lasciata la spuma dei torrenti e l'ombra dei boschi, prendevamo la Costa del Cirmo e, sospingendo le pecore alle ultime sorgenti, passavamo la Furcla. Così, finalmente, non più costretti alla Valle, eravamo liberi sui pendii infiniti e le bestie si spandevano alla pastura. I belati riempivano l'aria, languidi e felici, come musica di zampogne, e l'onda lanuta delle greggi trascorreva le chine erbose dei monti: ora allungandosi come un cirro, ora ingrossandosi festosa. Gli arieti dal verso querulo e fondo stavano innanzi, riccamente cornuti, e tracciavano per primi con rapide corse quella danza inuguale, mentre in alto le aquile volavano a larghi giri sui lontani agnelli sbrancati, sulle pecore tarde.
Passavamo tutta l'estate Su ‛n Som, guardiani della nostra miglior ricchezza, orgogliosi che ci fosse stata affidata, vigili come svelti cani. Diventavamo rapidi nella corsa, acuti la vista e instancabili; imparavamo ad avvertire il pericolo, a fiutare la tempesta e, se da oriente le ombre incalzavano, presto a sospingere i branchi agli stazzi notturni. Eravamo lieti della stagione, benché la sete e la fame ci tormentassero, benché il Sole ferisse là Su e alla pioggia non vi fosse riparo – la pioggia portata dai nembi scuri d'occidente, che si lasciava dietro folate di nebbie inquiete – e il sonno fosse corto e duro come le notti dell'altopiano. Eravamo infatti padroni di noi stessi, e gli adulti non salivamo da noi che un giorno ogni sette, sul dorso di vecchi cavalli, e soltanto per prendere i pani di burro, il formaggio e le ricotte delle mungiture quotidiane; poiché di essi il solo che stesse Su ‛n Som l'intera stagione era il Dogàr, il vecchio maestro, il più anziano tra i pastori.
Che composta maestà aveva la sua figura! e come attesi e dolci erano gli istanti quando, stretti intorno ai fuochi, egli ci raccontava le storie delle Genti e ci insegnava i canti che bisognava cantare quel tempo dell'anno! Avevamo ancora nelle narici l'odore del fieno fresco, l'odor delle case, dei grandi focolari, e già tutto era addietro e lontano, tutto ricordo e nostalgia. Egli, coll'asta di sorbo ricurva, batteva sul terreno il ritmo del verso e narrava con misurata enfasi le gesta di Neri. Dalla sua voce irta e melodiosa gli inni si alzavano impetuosi al cielo, graditi alle divinità, e conquistavano i nostri cuori, desiderosi d'ogni sorta di ardimento; e volentieri avremmo imitato l'Eroe e i suoi compagni e, ancor che imberbi, in cuore nostro eravamo pronti a ogni battaglia.
Ma quello, invece, era il tempo di conoscere la solitudine: l'età e gli insegnamenti ricevuti a quella ormai ci avevano resi atti – come a portare il lungo pastorale che sostituiva la piccola verga dei fanciulli – e a quella ci accostavamo come al primo sacrificio: disposti adesso a penetrarne il mistero.
Così, certe notti insonni che l'angoscia e il silenzio ci dilatavano gli occhi smarriti nel buio, ci venivano nel vento voci divine, e visioni popolavano l'aria di esseri alati, di cavalieri, di demoni, che lanciavano moniti terribili, che incitavano a ogni genere di sfide, che lusingavano come fanciulle, o indicavano orizzonti meravigliosi. Rivolti a ponente, con l'asta tracciavamo in aria i giusti segni, e rispondevamo a quelle voci invocando l'Aurora col breve Canto del Risveglio, sette volte ripetuto a ogni segno. Tutto si placava allora: le voci, piano piano, s'affievolivano e tacevano, e, quando tornava il silenzio, sentivamo le greggi fremere nel sonno, trascorse da un'inquietudine sconosciuta. Solo il ritorno della luce ci rendeva al tempo degli uomini.
Ma questo non accadeva a tutti, né a coloro cui accadeva era concesso di raccontarlo poiché, comandati a tacere per l'intera stagione, nulla usciva dalle nostre bocche se non i canti, gli incitamenti e le prescritte invocazioni. Dopo i riti d'iniziazione, infatti, quella prima estate alle pasture ci imponeva la regola del silenzio che, aprendoci ad altri sublimi colloqui, ci avrebbe avvezzato a un tempo al parlar temperato, virtù cara alle Genti. Era quel forzato tacere ad empirci l'anima di suoni, di voci argentine, a sommergerci di malinconia e d'improvviso a liberarcene inondandoci di letizia. Noi imparavamo a distinguere queste voci legate all'ora del giorno, ai luoghi, ai nostri desideri; e imparavamo a rispondervi dirigendo il gesto, il canto, il pensiero.
La fine dell'agosto, quando alla Valle il secondo fieno era già alto, e s'apprestavano i carri per raggiungere i campi più lontani, e s'affilavano le falci, noi non pensavamo ancora a ritornare, avvezzi ormai alla vita dell'altopiano, alle rigide notti, ai fuochi, al silenzio; ma spingevamo le greggi a settentrione, ai piedi della Grande Dimora dove la fronte dei ghiacci si spezzava in mille rivoli d'argento, e le acque sonavano sulle ghiaie, e l'erba cresciuta per ultima verdeggiava tenera e ricca. Vicini agli dei, più forte s'accendeva in cuore nostro la paura e più forte l'orgoglio. Volgevamo gli occhi in alto, alle nevi candenti, al dominio delle potenze celesti e, per scacciare il sacro timore, tra le labbra mormoravamo la formula del Patto che i nostri antenati avevano stretto con esse. Quelle parole brevi e antiche ci rasserenavano. Costruivamo allora un piccolo cippo ai piedi della montagna e sopra ponevamo del cibo affinché gli uccelli, messaggeri degli dei, raccogliessero il nostro sacrificio.
Dopo gli ultimi temporali d'agosto, settembre s'illuminava, terso come la Moja; ma quando a questi limpidi cieli seguiva il primo adunarsi delle nubi, plumbeo e minaccioso, allora era tempo di tornare indietro. Ripercorrevamo lenti le piste sforzando i branchi a restare indivisi e, sulla via, spesso ci coglieva la prima fiorita di neve. Stretti nelle mantelline di lana infeltrita, incitavamo le bestie a discendere, mentre il gelo ci tormentava i piedi scalzati. Tre giorni durava quel transito, e uno se ne andava, a discender la Furcla. Ma al tramonto dell'ultimo, dalle Vare Alte già udivamo i corni suonare e brillare i fuochi dei villaggi in festa pel nostro ritorno. Giungevamo con l'ultima luce, liberando le greggi tra la gente e spaventandole per gioco, cantando, gridando e soffiando nei piccoli flauti.
Tutto questo era Su ‛n Som, luogo della nostra adolescenza, il più alto dei luoghi; poiché gli uomini di Su amavano le altezze e non scendevano alle Piane, se non in preda, né parlavano la lingua di quelli che le abitavano.
La Val Saunaga, la Valle delle Genti, era infatti serrata a mezzogiorno dalla Chiusa dei Gemelli: una gola fonda e senza sole, dalle cui pareti livide sgorgavano cupe fonti. Ripida e stretta, s'apriva nei fianchi della boscosa catena del Lars come una soglia terrifica affacciata sull'abisso. Per altissimi dirupi le acque della ridente Saunaga vi scendevano precipiti urlando e percotendo le rocce con sinistri rimbombi. S'ingorgavano rabbiose con scrosci assordanti e uscivano violente dalle forre alzando spruzzi fin dove il sole, in alto, lambiva gli ultimi muschi; s'allargavano, infine, alle Piane in impetuose correnti per acquetarsi presto, basse e azzurrine. Per questo, attraverso la Clusa, non v'era agevole transito, e solo un impervio passo irto di pericoli, che correva lungo i precipizi e s'inerpicava su cenge anguste, congiungeva i nostri territori ai domini dei Popoli. Per quel passo solo gli adulti più valorosi si avventuravano, pastori agili e avvezzi alla fatica, dal piede fermo e immuni da paura. Nessuna donna aveva mai varcato quella soglia tetra e gloriosa poiché soltanto i maschi delle Genti erano sotto la Protezione dei Gemelli che da due alte rupi contrapposte vigilavano sulla parte più stretta della gola. I Giganti Divini, tutori degli Uomini di Su, sbarravano la strada a chiunque s'azzardasse a salire, scagliando dalle loro cime franose massi micidiali, incutendo terrore negli animi. Ma nessuno straniero aveva mai varcato quel giogo, e le Genti non tenevano commerci né, a memoria d'uomo, avevano mai parlato a chi non fosse della Valle. Non amando la servitù d'alcuno, non desideravano giovarsene ed erano orgogliosi della loro solitudine. Ma se l'asperità del luogo proteggeva il nostro isolamento, pure c'impediva di trascinare ai villaggi prede più cospicue di quelle che, con immensa fatica e perdite d'uomini riuscivamo a trarre dalle razzie in primavera. Le Genti, infatti, da antichissimo tempo erano avverse ai Popoli, e, ogni anno, all'inizio della bella stagione, scendevano in pianura a far preda di ferro, d'oro, di cavalli; poiché noi non cavavamo alcun metallo, né avevamo spazi sufficienti a far correre e riprodursi quei nobili animali; ma a caro prezzo pagavamo l'acquisto, e il bottino, quantunque ricco, non mai compensava delle vite perdute. Pure, quello era il costume delle mie Genti e noi non avevamo altra guerra né altro modo di misurare il nostro valore: i giovani volentieri s'esponevano a tale rischio, e nessuno avrebbe saputo fermarli al giunger della stagione. Ma per lo più il bottino era povero. La gran parte, infatti, andava perduta mentre, gravati dal peso, risalivamo la Chiusa ed eravamo esposti alla paziente ritorsione del nemico che, conoscendo la sua debolezza, da tempo immemorabile non attendeva più, agguerrito, la venuta degli Uomini di Su, ma, vedendoci calare, si ritraeva nelle paludi e tutto lasciava in mano nostra: mandrie, raccolti, ferro, oro, per cercar di riprendersi il suo quando noi, impediti dagli animali e carichi d'ogni spoglia, offrivamo il fianco. Uscivano guardinghi dai canneti a frotte rapide e silenziose e, stringendo in pugno gli archi, senza montare i loro bei destrieri, ci seguivano. Se i guerrieri che noi ponevamo a retroguardia si arrestavano per coprire la ritirata dei più, allora spuntavano innumerevoli e, facendosi arditi, minacciavano il nostro esiguo drappello. Così ci costringevano a restare uniti sotto la loro minaccia finché non cominciavamo la risalita.
Allora la Clusa echeggiava di urla e di nitriti, e la Saunaga precipite si colorava in rosso. I dardi, fitti come la grandine, sibilavano lungo le pareti della gola eccitando i cavalli che, pazzi di terrore, s'impennavano, si divincolavano e, sfuggendo alla guida, finivano in braccio alle correnti. I loro corpi pesanti venivano sollevati come fuscelli, scagliati contro le rocce e, solo cadaveri, restituiti alle Piane e ai Popoli che ne raccoglievano le carcasse. Noi, esposti alla mira degli arcieri, cercavamo di sospingere il maggior numero di animali in alto, fuori della portata dei dardi, ed era tutto un ansimare rabbioso, un groviglio di funi, e grida di dolore, e sangue. Lungo i precipizi e per i guadi tempestosi, continuamente perdevamo parte del nostro bottino. Ai compagni che ci cadevano ai piedi toglievamo la preda e, quale maggior segno di forza e di coraggio ce la caricavamo sulle spalle. In basso, ritirandosi lentamente, i drappelli delle retroguardie scaricavano sul nemico che avanzava guardingo pietre e provocavano frane; ma non potevano impedire tuttavia che i corpi dei fratelli, lacerati dalle frecce, restassero in mano ai Popoli; i quali, ritolto il loro, li abbandonavano straziati alla Saunàga. Solo la stretta dei Gemelli ci metteva al sicuro; ma i Popoli si tenevano ben lontani da essa e, quando l'ultimo Uomo di Su scompariva dietro i due Giganti, il nemico si dileguava all'improvviso, non curandosi delle retroguardie che, lorde di sudore e di fango, risalivano l'ultimo tratto indisturbate.
Aprile era di lutto e di gloria. Nei villaggi, davanti agli usci chiusi dal dolore, passavano indifferenti i giovani cavalieri, segnati dalle ferite e dalla fama. Pochi si erano conquistati una cavalcatura e, adesso, sfilavano coperti di lana bianca, con la lunga asta imbandierata e dipinta coi colori di famiglia. La Valle verdeggiava e le greggi scalpitavano nei recinti, colme di agnelli; ma le Genti, quei giorni, mescevano il pianto alla letizia; e se i padri dividevano le spoglie a benedivano i valorosi, le madri versavano lacrime e consolavano le sorelle afflitte.
Poi, al calar della sera, i guerrieri si ritiravano nei boschi e passavano la notte nel segreto dei loro canti e loro riti.